martedì 16 dicembre 2008

scheda: Ospitare stranieri in Europa. Arginare o regolare il flusso dei popoli? Quali leggi e quali confini per lo sviluppo e la sicurezza di tutti?

Il racconto riprende la “fuga in Egitto” del vangelo di Matteo e imbastisce i possibili pensieri di Giuseppe, lavoratore straniero in una terra diversa per religione e civiltà. Nella finzione abbiamo cercato di reinventare la parabola del buon samaritano come se fosse un episodio realmente accaduto, sia pur con protagonisti immaginari.

Nel Vangelo di Matteo Gesù nasce a Betlemme ma non si fa riferimento ad alcun censimento per giustificarne la presenza. Non c’è neppure alcuna indicazione geografica circa la visione che precede la nascita, perciò possiamo anche immaginare che essa non sia da collocare a Nazaret come riportato da Luca. Quel che è certo è che Giuseppe emigra precipitosamente in Egitto e che vi rimane alcuni anni.
Egli è dunque un lavoratore straniero in una terra governata da una potenza ancora più lontana (Roma) che ha informato della sua civiltà tutte le periferie del suo impero, importando ovunque anche usi e costumi delle località più raffinate incontrate.
A modo suo l’impero romano è una civiltà globalizzata, con tanto commercio, mobilità umana e usi e costumi “occidentali” diffusi ovunque. Giuseppe e la sua famiglia sono stranieri in Egitto per lingua, religione, civiltà, usi e costumi: vestono in maniera diversa, hanno un ritmo di feste e riposi differente, mangiano secondo regole che gli egiziani e i romani non capiscono, hanno un senso della giustizia e della sovranità che non corrispondono a quelle del Dio in Terra che sono il Faraone o l’Imperatore Augusto.

Quali analogie sono possibili tra la situazione della famiglia di Gesù e quella delle famiglie emigrate che abitano in mezzo a noi?

Gesù è stato un bambino segnato da un’esperienza di emigrazione. Nella sua predicazione da adulto ritroviamo tracce di questo passato?

Al rientro in Palestina Giuseppe e la sua famiglia non tornano in Giudea ma emigrano a Nazaret a oltre tre giorni di distanza da Gerusalemme/Betlemme; solo così, dice Matteo, “si realizzò quel che Dio aveva detto per mezzo dei profeti: - Egli sarà chiamato Nazareno.-“ C’è traccia di questo senso di non appartenenza ad alcuna terra nelle sue espressioni sulla famiglia e i parenti? Forse anche le sue richieste (ad esempio al giovane ricco) di distacco da tutte le cose sono predeterminate da questa lunga esperienza di “non radicamento”? Se è così, dove il cristiano può fissare la sua casa, la sua ascendenza, la sua appartenenza?

Anche da adulto Gesù vivrà da migrante e senza un mestiere fisso: affiderà il suo sostentamento alla generosità di quanti si faranno carico di ospitare lui e il suo gruppetto di seguaci. I contenuti della sua predicazione risentono di questo stato di vita? E come possono essere riproposti efficacemente a gente come noi orientata a creare stabilità e sicurezza, benessere e progresso? Disposti ad aprire e chiudere le frontiere, non secondo il bisogno dell’altro ma il nostro vantaggio?

La parabola del buon samaritano, qui riproposta volutamente a ruoli invertiti, dice che non siamo noi a scegliere il nostro prossimo ma sono i bisogni reali degli altri a venirci incontro. Noi possiamo scegliere che “altro” (la religione, ma anche la sicurezza, l’integrazione, la legalità) è più importante e urgente e anteporlo al bisogno materiale dell’altro, perché comunque noi non potremo mai risolvere il problema della povertà nel mondo. Anche Gesù dice che i poveri li avremo sempre con noi. Ma sempre Gesù, proprio nel vangelo di Matteo ci ha anche detto che il giorno del Giudizio si verificherà quanto abbiamo accolto e aiutato l’affamato, l’assetato, lo straniero, il delinquente …