martedì 16 dicembre 2008

scheda: Ospitare stranieri in Europa. Arginare o regolare il flusso dei popoli? Quali leggi e quali confini per lo sviluppo e la sicurezza di tutti?

Il racconto riprende la “fuga in Egitto” del vangelo di Matteo e imbastisce i possibili pensieri di Giuseppe, lavoratore straniero in una terra diversa per religione e civiltà. Nella finzione abbiamo cercato di reinventare la parabola del buon samaritano come se fosse un episodio realmente accaduto, sia pur con protagonisti immaginari.

Nel Vangelo di Matteo Gesù nasce a Betlemme ma non si fa riferimento ad alcun censimento per giustificarne la presenza. Non c’è neppure alcuna indicazione geografica circa la visione che precede la nascita, perciò possiamo anche immaginare che essa non sia da collocare a Nazaret come riportato da Luca. Quel che è certo è che Giuseppe emigra precipitosamente in Egitto e che vi rimane alcuni anni.
Egli è dunque un lavoratore straniero in una terra governata da una potenza ancora più lontana (Roma) che ha informato della sua civiltà tutte le periferie del suo impero, importando ovunque anche usi e costumi delle località più raffinate incontrate.
A modo suo l’impero romano è una civiltà globalizzata, con tanto commercio, mobilità umana e usi e costumi “occidentali” diffusi ovunque. Giuseppe e la sua famiglia sono stranieri in Egitto per lingua, religione, civiltà, usi e costumi: vestono in maniera diversa, hanno un ritmo di feste e riposi differente, mangiano secondo regole che gli egiziani e i romani non capiscono, hanno un senso della giustizia e della sovranità che non corrispondono a quelle del Dio in Terra che sono il Faraone o l’Imperatore Augusto.

Quali analogie sono possibili tra la situazione della famiglia di Gesù e quella delle famiglie emigrate che abitano in mezzo a noi?

Gesù è stato un bambino segnato da un’esperienza di emigrazione. Nella sua predicazione da adulto ritroviamo tracce di questo passato?

Al rientro in Palestina Giuseppe e la sua famiglia non tornano in Giudea ma emigrano a Nazaret a oltre tre giorni di distanza da Gerusalemme/Betlemme; solo così, dice Matteo, “si realizzò quel che Dio aveva detto per mezzo dei profeti: - Egli sarà chiamato Nazareno.-“ C’è traccia di questo senso di non appartenenza ad alcuna terra nelle sue espressioni sulla famiglia e i parenti? Forse anche le sue richieste (ad esempio al giovane ricco) di distacco da tutte le cose sono predeterminate da questa lunga esperienza di “non radicamento”? Se è così, dove il cristiano può fissare la sua casa, la sua ascendenza, la sua appartenenza?

Anche da adulto Gesù vivrà da migrante e senza un mestiere fisso: affiderà il suo sostentamento alla generosità di quanti si faranno carico di ospitare lui e il suo gruppetto di seguaci. I contenuti della sua predicazione risentono di questo stato di vita? E come possono essere riproposti efficacemente a gente come noi orientata a creare stabilità e sicurezza, benessere e progresso? Disposti ad aprire e chiudere le frontiere, non secondo il bisogno dell’altro ma il nostro vantaggio?

La parabola del buon samaritano, qui riproposta volutamente a ruoli invertiti, dice che non siamo noi a scegliere il nostro prossimo ma sono i bisogni reali degli altri a venirci incontro. Noi possiamo scegliere che “altro” (la religione, ma anche la sicurezza, l’integrazione, la legalità) è più importante e urgente e anteporlo al bisogno materiale dell’altro, perché comunque noi non potremo mai risolvere il problema della povertà nel mondo. Anche Gesù dice che i poveri li avremo sempre con noi. Ma sempre Gesù, proprio nel vangelo di Matteo ci ha anche detto che il giorno del Giudizio si verificherà quanto abbiamo accolto e aiutato l’affamato, l’assetato, lo straniero, il delinquente …

mercoledì 12 novembre 2008

E' giusto che i cristiani che dicono spesso il Padre Nostro possano poi usare parole come extracomunitario, immigrato, clandestino... straniero?

Ho trovato questo racconto che ripropongo e mi sembra adatto al nostro tema:

IL FUTURO DEI MIEI di Alessandro Ghebreigziabiher

Su una nave. In mare. Da qualche parte."Zio Amadou?""Si?""Mi Senti?"" Si che ti sento...""Ma non mi guardi." L'uomo si volta verso il nipote. Il ragazzino, poco più di sei anni, lo osserva dubbioso,tuttavia si fida e riattacca: "Zio. tu conosci bene l'italiano?""Certo, ci sono stato già due volte in Italia.""Conosci tutte le parole?""Sicuro Ousmane"Il nipote si guarda in giro come se avesse timore di essere sentito da altri, e arriva al sodo: "Cosa vuol dire extracomunitario?"L'uomo, alto e magro, sui trent'anni ha la barba che gliene aggiunge almeno una decina. Non appena sente l'ultima parola del bambino, si gira e fissa i propri occhi nei suoi.Trascorre un breve istante che sembra un'eternità in un viaggio in cui è in gioco la vita."Extracomunitario dici?" ripete sorridendo lo zio Amadou, "extracomunitario è una bellissima parola. I comunitari sono quelli che vivono tutti nella stessa comunità, come gli italiani, e extracomunitario è qualcuno che viene da lontano a portare qualcosa in più.""E questo qualcosa in più è una cosa bella?""Certamente" - esclama Amadou - " tu ed io, una volta giunti in Italia, diventeremo extracomunitari. Io sono così così, ma tu sei di sicuro una persona bella, bellissima."L'uomo riprende a far correre lo sguardo sulla superficie dell'acqua, ma Ousmane gli chiede ancora: "Cosa vuol dire immigrato?" Lo zio risponde subito:"Immigrato è una parola ancora più bella di extracomunitario. Devi sapere che, quando noi extracomunitari arriveremo in Italia e incominceremo a vivere lì, diventeremo degli immigrati""Anch'io?""Sì, anche tu. Un bambino immigrato. Sei anche un extracomunitario, cioè qualcuno che porta alla comunità qualcosa di più bello, tutti gli italiani ci diranno grazie, cioè ci saranno grati. Dai cui, immigrati. Chiaro?""Chiaro zio. Prima extracomunitari e poi immigrati""Bravo" approva soddisfatto Amadou e ritorna a guardare il mare. Poco dopo il bambino richiama ancora la sua attenzione "Zio...""Si?" fa l'uomo voltandosi paziente per l'ennesima volta."E cosa vuol dire clandestino?"Questa volta Amadou compie un enorme sforzo per sorridere e gli dice: "Clandestino. Sai questa è la parola più importante. Noi extracomunitari, prima di diventare immigrati, siamo dei clandestini. I comunitari che incontrerai molto probabilmente ancora non lo sanno che tu hai qualcosa in più di bello qualcuno di loro potrà insinuare il contrario. Tu non credere a queste persone. Per quante persone possano negarlo tu sei qualcosa di più bello e lo sai perché? Perché tu sei un clandestino. Tu sei il destino del tuo clan, cioè della tua famiglia. Tu sei il futuro." Amadou riprende ad osservare il mare. Ousmane finalmente si volta a guardare le onde. Il suo sguardo punta verso l'orizzonte: "Sono il futuro dei miei" pensa il bambino con orgoglio e commozione. Chi può essere così ingenuo da pensare di poterlo fermare?

Mi chiedo però: noi cristiani che diciamo spesso il Padre Nostro possiamo usare le parole come extracomunitario, immigrato, clandestino... straniero?
don Claudio

sabato 8 novembre 2008

scheda: Chi sei? Non parli la mia lingua e non adori il mio Dio! Come posso ospitarti?

Il tema dello straniero è affrontato con molte sfaccettature dalla Bibbia. Nel nostro racconto abbiamo provato a legare , nella finzione dell’impianto letterario tre brani che lo affrontano con angolature molto differenti:

  1. Matteo, nel cap. 25, descrive il “giudizio finale” secondo uno schema poi fatto proprio da tutti i grandi pittori. La cosa più strepitosa è l’intuizione universalistica di questo evangelista che non si è mai mosso dalla Palestina di Gesù e che ha sempre predicato il suo messaggio ai soli ebrei. Nel
    brano che fa da sfondo al nostro racconto intuisce che la salvezza è per tutti gli uomini perché non saremo giudicati in base alla nostra professione di fede ma sulle nostre azioni che riconoscono nell’uomo che ci passa accanto un fratello da aiutare e non un lupo da cui difendersi.
  2. L’autore di Genesi ci parla invece nel cap. 18 dell’incontro di Abramo a Mambre con i “tre uomini” che si riveleranno poi tre “angeli” e che la tradizione cristiana (soprattutto orientale) ha spesso interpretato come figura delle Trinità. Essi rappresentano un modo di incontrare lo straniero da parte di un appassionato di Dio come Abramo, ben diverso da quello degli abitanti di Sodoma, molto più schiacciati sulla materialità delle loro attese: lui accoglie fiducioso gli stranieri, gli altri li “usano” (schiavizzano) per il loro piacere.
  3. Infine il brano di Gn 21 ci svela la “genesi di un popolo straniero” (gli arabi) che in realtà è il figlio non più riconosciuto come tale, per altro sembra addirittura per volontà di Dio (o almeno con il suo beneplacito).


DOMANDE:

  • ero forestiero e mi hai ospitato
    Questa semplice affermazione comporta che la salvezza (la felicità eterna, il “senso” della vita) è disponibile davvero per tutti gli uomini (prima e dopo Cristo).
    Se così è qual è il senso della fede cristiana? La sua necessità? E che senso ha “evangelizzare”?
  • "Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo"
    Dio è uno straniero che passa presso la nostra tenda.
    Posso fidarmi di lui?
  • In Gn 21 il concetto di straniero nasce dal desiderio di preservare la propria identità e il proprio patrimonio.
    Ismaele è il figlio non più riconosciuto come tale. A lui non passa il patrimonio del padre. Per questo gli ebrei possono dirsi figli di Abramo, mentre gli arabi sono discendenti di Ismaele perché è da lui che si genera il nuovo patrimonio. Quindi l’estraneità è un fatto innanzitutto patrimoniale (e successivamente culturale). Rimane pur vero però che il padre è lo stesso per cui non ci può essere disconoscimento totale dell’altro ma anche riconoscimento (e quindi accoglienza).
    Questo ci aiuta a capire la situazione attuale: gli stranieri non vengono direttamente a portare guerra ma –alcuni dicono– “minacciano la nostra identità e il nostro benessere” eppure non li possiamo disconoscere totalmente come solo “diversi” in quanto li riconosciamo uomini come noi (salvo mandare in crisi il concetto di umanità = razzismo).
  • E se invece lo straniero fosse un angelo che porta una buona notizia? Cioè se accoglierlo fosse la condizione per migliorare il nostro stato? Abramo ci ha rimesso tre focacce e un capretto, ma ha guadagnato un figlio!
    Qual è il primo atteggiamento che deve guidare i nostri comportamenti:
    Difesa o accoglienza?
  • Crediamo in molti che c’è un unico Dio. Questa fede può essere una strada di incontro? O è solo una occasione di scontro tra civiltà diverse?
  • Perché Dio ama la sterile, il povero, l’oppresso?
    Viceversa perché Dio sceglie uno e scarta l’altro?
    La Chiesa ha sposato la tesi della “estraneità” basata sul patrimonio e per questo nella sua dottrina sociale afferma che la proprietà è un diritto fondamentale/naturale della persona. Positivamente significa che ogni uomo ha diritto ad una identità. Negativamente indica però anche la necessità di confini (di patrimonio, di identità, di lingua, di cultura …). Oggi si va verso un mondo globalizzato, nel senso che la dimensione dei patrimoni è tale da richiedere scambi a livello mondiale, con la necessità di un governo economico e politico regolato a livello planetario. In questo contesto anche le culture e le lingue tendono a miscelarsi annacquandosi e rigenerandosi l’una nell’altra. Tale situazione può essere vista come una grande opportunità o come un incombente pericolo: siamo più vicini ad una nuova Babele o al riscatto di quel “peccato”?

mercoledì 22 ottobre 2008

responsabilità e peccato originale

Questa pagina non è del tutto frutto di riflessioni mie, ma una rielaborazione di alcuni capitoli del libro “Dio dove sei?” di Carlos Mesters.

Ciò che Dio vuole è Il Paradiso e questo è il bozzetto del mondo. Una tale pianta della costruzione del mondo Dio la consegnò all'uomo, suo impresario, affinché egli, con le proprie mani costruisse la sua felicità. L'uomo possedeva la possibilità reale: di vivere sempre ed essere immortale; di essere felice senza mai soffrire; di vivere in armonia con Dio senza mai peccare. Non solo ce l'aveva, ma ce l'ha, perché Dio non ha cambiato idea. Dio vuole ancora quel Paradiso. Tale Paradiso dovrebbe esistere. Con la sua descrizione l'autore di Genesi denuncia il mondo di cui ha esperienza. Ma noi ci poniamo la domanda:
"Ma perché, allora, il mondo è tutto il contrario di quello che dovrebbe essere? Chi è il responsabile?”.
Per quale ragione gli uomini abbandonavano quel progetto di vita? Il serpente li attraeva.
Il loro mondo potrebbe essere differente se non andassero dietro al serpente.
Adamo e Eva potrebbero chiamarsi: «un uomo e una Donna», per dire: tutti noi. Essi sono lo specchio critico della realtà che aiuta a scoprire in noi l'errore localizzato in Adamo ed Eva. E’ proprio inutile chiedersi: «perché dobbiamo soffrire noi per causa di un Uomo e di una Donna? ». Non si tratta di scaricare la colpa sugli altri, ma di arrivare a riconoscere: «Sono io che faccio questo! Io sono corresponsabile del male che esiste». L'Autore non è nostalgico: «Anticamente, tutto era così buono!». Egli vuole che tutti si scuotano, si sentano responsabili e aggrediscano il male alla radice, dentro di loro.
Vincere è sempre possibile, perché Dio lo vuole.
La descrizione dell'«origine del male» non si conclude con la catastrofe del “peccato originale”. La deviazione iniziale è appena il primo passo della disgrazia. Slegato da Dio, abusando della propria libertà contro Dio stesso, l'uomo si slega anche dal fratello: Caino uccide Abele; Caino rappresenta chiunque maltratta e uccide il fratello. La violenza si moltiplica spaventosamente fino a settantasette volte (Gen. 4, 24). Separatosi da Dio e dal fratello, l'uomo si mette sulla difensiva e cerca salvezza nella fuga, usando il rito e la magia (Gen. 6, 1-2). Finalmente, continuando di questo passo, l'umanità si impenna e si disintegra perché la convivenza e l'agire insieme diventano impossibili. (Torre di Babele).
Nonostante tutto, però, l'autore spera e predice la vittoria dell'uomo sul male, che viene dal serpente.
Responsabile di tutto è l'uomo. Per questo non gli è permessa la ribellione contro il male (qualunque esso sia) bensì la lotta per sconfiggerlo. Ha la missione e la capacità di farlo, perché Dio lo vuole. Il Paradiso esiste e continua a esistere come possibilità reale, dal momento che Dio non l'ha distrutto. Ha solo messo un angelo sulla sua porta, perché l'uomo non se ne impadronisca senza averne il diritto (Gen. 3, 24).
Il futuro resta aperto. L'autore afferma che Dio non ha abbandonato l'uomo, perché: «Dio fece loro un vestito» (Gen. 3, 21), protesse Caino (Gen. 4, 15), salvò Noè dal diluvio, causato dal male dell'uomo (Gen. 6, 9-9.17). Infine, quando la disintegrazione dell'umanità rese impossibile l'agire insieme, chiamò Abramo per raggiungere in lui tutti gli altri (Gen. 12, 1-2). Comincia allora la cosiddetta «Storia della Salvezza».
Un Paradiso in cui vi è perfetta armonia dovrebbe diventare realtà. E’ possibile costruire un simile futuro? Ci ripetiamo allora la stessa domanda, molto più difficile di tutte quelle che ci siamo fatte all'inizio: «Perché il mondo non è cosi? Che cos'è che gli impedisce di marciare verso il futuro? Chi ne è responsabile? Dove sta la causa? Che cosa fare per trasformare il mondo, dal momento che non è come dovrebbe essere?».
L'autore del racconto del Paradiso vuole portarci a formulare domande del genere, molto più serie e impegnative di tutte le domande della storia.
La descrizione del Paradiso terrestre è una confessione pubblica, un manifesto di resistenza, un grido di speranza, un invito alla trasformazione del mondo.
L'autore non dà «le prove» dell'esistenza di un «peccato originale». Verifica soltanto e cerca di determinare quale forma prese la deviazione al tempo suo. Non gli importa di elaborare una teoria del come entrò il male nel mondo, ma cerca una strategia per cacciarlo dal mondo. Il peccato attacca l'uomo alla radice, ma non annulla la sua capacità di fare il bene. Nella misura in cui il peccato personale cresce, facciamo esperienze del peccato originale: «mordiamo il frutto», facendo crescere in tutti coloro che vengono dopo di noi i mali di cui l'umanità è 'colpevole'.

Qual è un primo passo? Che l’uomo smetta di voler essere Dio e cerchi di essere uomo a immagine di Dio, consapevole che è altro da Lui e che proprio all’uomo Dio ha affidato ogni suo simile e il mondo.

don Claudio

giovedì 16 ottobre 2008

anche Dio è in "divenire"?

Penso che quando ci mettiamo ad affrontare questi temi la sensazione di inadeguatezza (La Bibbia direbbe nudità) colpisca tutti quanti.
Solo un ingenuo può sperare di riuscire a dare una spiegazione “definitiva” del senso delle cose e della vita. Queste (le cose e la vita) ci definiscono come persone ma non si lasciano comprendere fino in fondo da noi perché esistono da prima e continuano dopo di noi.
Allora si arriva inevitabilmente ad un punto della riflessione nel quale si apre davanti a noi un bivio.
Da una parte si buttano tutti coloro che preferiscono concludere che la mancanza di un senso definitivo non merita ulteriore indagine e pertanto è meglio vivere senza senso. Dall’altra vanno ad ammucchiarsi tutti coloro che pensano invece che, se un senso c’è questo non può che esserci “rivelato” da chi eventualmente lo detiene.
Entrambe le soluzioni prevedono una variegatissima sfaccettatura di possibilità teoriche e pratiche, ognuna delle quali ha una sua ragione e giustificazione.
Coloro che credono in Dio sono tra coloro che hanno fatto la scelta di “attendere una rivelazione”. Ci sono anche non credenti che si muovono in questa prospettiva ma che dichiarano di essere “in attesa” di una voce che però non è ancora venuta a spiegare loro le cose e la vita.
Tra i tanti che credono in un Dio che ha parlato agli uomini, molti si dicono cristiani, cioè affermano di credere in Gesù di Nazaret, Cristo di Dio, nato, vissuto, morto e risorto.
Costoro sostengono che Dio ha creato il mondo e ha dato vita agli uomini, con modalità e tempi che gli stessi uomini stanno ancora indagando
[1]; quello che i cristiani constatano (come tutti gli uomini) è che l’esperienza umana è un misto di bene e di male che in gran parte è riconducibile alle responsabilità dei comportamenti umani, ma non totalmente. Certamente le guerre, i furti, gli omicidi e tutti i soprusi e le cattiverie che non c’è bisogno di enumerare qui, risalgono direttamente alla nostra responsabilità. Per le malattie il discorso è già più complesso perché alcune possono essere indotte dai nostri comportamenti (es. il cancro ai polmoni dei fumatori) mentre altre sono assolutamente indipendenti (es. le malattie neurologiche). In alcuni casi ci sono malformazioni genetiche che accompagnano la vita intera di una persona ma la cui causa non è rintracciabile nel comportamento di nessuno. Infine vi sono una serie di “disgrazie naturali” imputabili appunto alla natura a prescindere dal comportamento umano, le cui conseguenze per l’uomo possono essere catastrofiche: terremoti, alluvioni, fulmini, valanghe …
Dare un senso a tutta questa complessità è il compito della “rivelazione” che molti uomini attendono e che i cristiani dicono essere completa in Gesù.
Gesù però non si è mai apertamente occupato del problema dell’origine del dolore e del male, del peccato e della morte. Ci sono due brani in cui di sfuggita sembra avvicinarsi al nostro tema.
Il primo è l’episodio del cieco nato (Gv 9): “«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”. Questa risposta può prestarsi a diverse interpretazioni compresa quella tremenda di un Dio che permette il male per potersi manifestare potente! Se anche concediamo all’autore l’intenzione invece di aver voluto togliere a Dio la responsabilità di quella malattia genetica per sottolineare invece la sua capacità di intervenire positivamente a risolverla, ci si chiede perché quel cieco sì e tanti altri no; perché solo qualche decina di persone dei milioni di pellegrini malati e animati dalla fede che visitano Lourdes sono stati miracolati? Anche Gesù dunque sembra constatare che c’è un male dentro ad un mondo imperfetto : non si interroga sull’origine del male ma prova ad indicarci il senso del mondo.
L’altro episodio è nel vangelo di Luca al cap. 13: “In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»”. Qui il dolore ingiusto è associato da Gesù al tema della conversione. Ancora una volta Gesù non si volta indietro ad indagare l’origine e la causa ma guarda avanti per indicare un atteggiamento di salvezza.

Se neanche Gesù ci aiuta a risolvere la nostra domanda, ci rimane solo la nostra riflessione razionale.
Allora mi chiedo se il concetto di “evoluzione” non possa essere applicato allo stesso Dio che conosce in effetti una dinamica interna(evoluzione) per il solo fatto di essere uno e trino e di aver addirittura incarnato (cioè temporizzato e localizzato) il figlio. D’altra parte noi stessi sperimentiamo l’evoluzione non solo come male ma spesso come bene; penso per esempio agli aneliti che ci fanno desiderare il meglio o alla tensione positiva dell’innamoramento. Se così è, l’evoluzione del mondo con tutto quello che ciò significa (compresi terremoti e catastrofe naturali) non devono essere imputati alla colpa (originale) dell’uomo ma alle caratteristiche essenziali della creazione che non può che essere evolutiva. Dio ha creato un mondo in evoluzione (in questo senso imperfetto) e l’uomo ne è il meccanico che lo deve mettere a punto. Il peccato è confondere il ruolo di meccanico con quello di proprietario del mezzo: solo questo, non altro. La fatica e qualche volta il dolore del costruire, del pensare, dell’agire non sono una conseguenza del peccato ma una caratteristica della storia, della vita, della creazione. Forse l’espressione è impropria ma in questo senso si può parlare di una “responsabilità di Dio” per ciò che riguarda le disgrazie e le morti innocenti. Per questo non riesco ad immaginare se non un Dio che alla fine ricomprende tutto in sé, accoglie tutto il suo creato, lo riporta nel “suo seno” indipendentemente dal nostro aver ceduto alla tentazione di considerarci padroni del mondo.

Silvano

[1] Se la teoria evoluzionista è la più probabile diventa difficile dire quando è “nato” il primo uomo e soprattutto quando ha cominciato ad avere pensieri sufficientemente evoluti da poter diventare cosciente del mondo ed eventualmente di Dio. Ma anche se vogliamo ammettere un intervento creativo speciale per l’uomo inserito bell’e fatto in un mondo in evoluzione non è facile pensare all’uomo delle caverne con pensieri di relazione col divino e la coscienza di dover dominare la terra.

sabato 11 ottobre 2008

scheda: Ospitare il peccato e il senso di colpa - la condizione umana di fronte alla coscienza del male

“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gn.2,17)

  1. Il primo tema che viene a galla con forza è quello della presunta onnipotenza di Dio.
    Il creatore fa un mondo inospitale in cui la creatura fatta a sua immagine e somiglianza, farebbe fatica a sopravvivere e perciò la colloca in una piccola porzione dell’universo, dotata dei comfort essenziali.
    Qual è il senso di questo agire di Dio?
    È davvero onnipotente nel senso di potere tutto?
    Se è così, perché crea in maniera imperfetta?
    Se Dio ospita l’imperfezione nel creato il peccato è “inevitabile” perché il peccato è parte ineliminabile dell’imperfezione.
  2. L’uomo non può fare a meno di desiderare la perfezione di Dio perché è fatto a sua immagine e somiglianza, ma non la può raggiungere perché altrimenti sarebbe Dio.
    Dio ha messo l’uomo in una condizione contraddittoria insuperabile: o si affida a lui, al suo comandamento oppure prova a cercare da sè il modo di completare la creazione. La prima soluzione implica la rinuncia a desiderare di essere come il creatore (il Padre); la seconda significa darsi regole e comportamenti indipendenti, potenzialmente e realmente conflittuali con i “desideri” di Dio.
    L’uomo ha scelto la seconda strada.
    Poteva scegliere diversamente?
    Poteva venir meno al desiderio di essere come Dio?
    Un uomo obbediente al “regolamento” del giardino soddisfa le condizioni minime di “immagine e somiglianza a Dio”, il soggetto che per definizione non obbedisce se non a se stesso?
    Essere ospiti nel giardino e somigliare a Dio non è contradditorio?
  3. Nudità, paura, vergogna.
    La prima conoscenza autonoma dell’uomo è quella della sua inadeguatezza di fronte alla complessità dell’universo. Ma queste sensazioni viaggiano di pari passo con la voglia di domare il mondo, traguardo possibile perché questo risulta prigioniero di regole che il pensiero umano può governare e in parte cambiare.
    Ma allora il peccato è solo “colpa” dell’uomo?
    La condizione di peccatore (cioè di soggetto che rinuncia all’obbedienza per poter partecipare all’azione di perfezionamento del mondo creato imperfetto da Dio) non è piuttosto una dimensione irrinunciabile dell’umanità?
    Senza peccato non potrebbe esserci umanità (cioè somiglianza a Dio senza uguaglianza a lui).
  4. Se l’uomo non può diventare Dio, ma solo somigliargli di più, allora una soluzione del conflitto inevitabile che oppone l’uomo a Dio non può che darsi nella possibilità che Dio si faccia uomo. Solo se Dio viene di qua possiamo finalmente essere uguali.
    La venuta di Gesù, ha risolto il conflitto?